Platone racconta che Theuth, divinità egizia della conoscenza, si recò presso il sovrano dell’epoca, re Thamus, per sottoporgli la sua ultima invenzione: la scrittura, descrivendola come una conoscenza che avvebbe reso « gli egiziani più sapienti e più capaci di ricordare ». Il re, che non che era di questo avviso, gli rispose: « La scoperta della scrittura avrà per effetto di produrre la dimenticanza nelle anime di coloro che la impareranno, perché fidandosi della scrittura si abitueranno a ricordare dal di fuori mediante segni estranei, e non dal di dentro e da se medesimi » (Platone, Fedro 274c – 275b)
La diffidenza di Platone nei confronti della scrittura era risultato dei suoi tempi: l’oralità sola alla quale era abituato e affezionato, stava lasciando spazio al coesistere di oralità e scrittura. Chissà se Platone oggi sarebbe altrettanto preoccupato nel notare come l’arte dello scrivere stia lasciando spazio all’utilizzo di tecnologie efficaci ma asettiche. Computer, telefonini, ipads, quando è stata l’ultima volta che avete scritto una lettera a mano?
Eppure la scrittura puo’ dire cosi tanto su di noi. Nell’ottica di interpretare quell’insieme di segni vergati dalla mano che sono in grado di esprimere, pur nella loro apparente automaticità, il valore del nostro inconscio, nasce la grafologia. Molteplici sono le applicazioni di questa scienza: analisi cognitivo-comportamentale, orientamento scolastico, ausilio nella selezione del personale, compatibilità di coppia, studio della dinamica familiare… Ma inanzitutto, essa serve a conoscersi meglio, le proprie potenzialità e i propri limiti, per instaurare un rapporto diretto con se stessi e diventare autonomi, ovvero diretti dalle propria autentica legge interiore.
Un buon compromesso, sembrerebbe, con le parole dello scettico re Thamus.
AGIF